Eccomi qui, finalmente, dopo più di un anno, a raccontare quella che è stata per me l’esperienza di viaggio più entusiasmante che abbia mai vissuto. C’ho messo un po’ di tempo, ma ne è valsa la pena. Partendo da oltre 4000 scatti non è stato facile selezionarne 50 solamente, anche perché sono affezionato a quasi tutte le mie foto e avrei voluto mostrarne molte di più. Beh, di questi tempi è già una grazia essere riuscito ad arrivare alla fine di questo breve racconto di viaggio (lasciamo stare lo stile…) accompagnandolo ad alcuni degli scatti più significativi. Nel caso qualcuno non abbia voglia di leggersi la storiella dell’intero viaggio, in fondo può trovare un galleria delle immagini a cui faccio riferimento nel testo.
Premessa
Tutto parte quando, nel 2010, una delle società scientifiche di cui sono socio per questioni lavorative (l’ISHS, International Society of Horticultural Science, ndr) durante il convegno tenutosi a Lisbona (che mi diede la possibilità, seppur molto veloce, di visitare un po’ il Portogallo, vedi QUI), fissa la sede del successivo convegno, che si sarebbe tenuto quattro anno dopo, a Brisbane, in Australia. Wow!!! Questa fu la mia reazione, alimentata anche da un mio caro amico australiano all’epoca mio collega nel gruppo di ricerca dell’università dove lavoro tuttora: “…you’ll enjoy Australia!!!”. A questo punto finisce tutto nel dimenticatoio per quasi 3 anni, fino a quando i tempi tecnici non mi impongono una decisione. E decido di andarci.
Preparazione del viaggio
Prima di partire, non avevo la più pallida idea di cosa sarei andato a vedere né per quanto tempo sarei dovuto rimanere per riuscire a vedere e, soprattutto, fotografare, qualcosa di significativo. E neppure come mi sarei mosso nel territorio australiano. Niente, fino a quando non venni a sapere che il mio amico-collega Franco avrebbe partecipato allo stesso convegno. Questa era la notizia che aspettavo. Entrambi, infatti, condividiamo la passione per la fotografia, cosa di non poco conto quando si programma di intraprendere un viaggio fotografico, che, come si sa, ha dei tempi completamente diversi dai comuni viaggi “di piacere”. Oltretutto, avendo ancora chiare nella mia mente le precedenti esperienze, ovvero Lisbona e Nuova Zelanda, che per motivi diversi non sono stati viaggi entusiasmanti, la compagnia di un amico con la stessa passione era il giusto ingrediente per cominciare bene questa avventura. E chi ben comincia…
Pochi mesi prima della partenza iniziammo quindi a programmare il viaggio e le tappe principali. La prima decisione, presa di comune accordo e poi rivelatasi più che vincente, fu di viaggiare con un camper a 2 posti (un Jucy Van!!!). Questo aspetto logistico risolse in un colpo solo una grossa fetta di problemi organizzativi tipici di un viaggio itinerante (dove dormire, quanto tempo prima prenotare, come spostarsi da un posto all’altro, tempi vincolati, ecc), dandoci la libertà di improvvisare a 360 gradi, seppure non fosse proprio nelle nostre intenzioni iniziali. Insomma, il percorso si stava via via definendo e poco prima di partire definimmo le tappe principali di un viaggio in camper di 5 giorni da Brisbane a Sydney ed un breve viaggio di 2 giorni ad Ayers Rock per ammirare la montagna sacra di Uluru. I tratti di viaggio, secondo il programma iniziale, erano Brisbane-Byron Bay (giorno 1), Byron Bay-Port Macquarie (giorno 2), Port Macquarie-Newcastle (giorno 3), Newcastle-Sydney (giorno 4), Sydney-Ayers Rock (in aereo, giorno 5), Ayers Rock-Sydney (in aereo, giorno 6) e visita a Sydney e dintorni prima di ripartire (giorno 7). In questo modo avremmo suddiviso il viaggio in parti pressoché uguali, senza stressarci troppo con la guida (circa 1000 km su strada in totale).
La nostra attenzione pre-partenza si spostò poi sull’attrezzatura. Per quanto mi riguarda, considerando i limiti di peso del bagaglio a mano e di quello in stiva (limiti da cui non potevo prescindere) sia durante il viaggio intercontinentale sia, soprattutto, per quello interno ad Ayers Rock, cercai di fare un paio di conti considerando anche i possibili soggetti (prevalentemente paesaggi), arrivando alla conclusione che avrei portato con me:
- Canon EOS 7D con 4 CF (96 GBytes in totale)
- Canon EOS 450D con 2 SD (10 GBytes in totale) – corpo secondario
- Canon 24-105 f/4 L IS USM
- Sigma 8-16 f/4.5/5.6 DC HSM
- Canon 40mm f/2.8 STM (non si sa mai…)
- Testa Sirui G10-X
- Treppiede Benro A0180T
- Caricabatterie e batterie di riserva
- MacBook Air 11”
- Hard Disk esterno 2,5” da 1TB
- Zaino fotografico Tamrac Expedition 6X
Dato che la caccia fotografica non era in programma, decisi – malauguratamente – di lasciare a casa il Canon 400mm f/5.6 L.
Brisbane
Per quanto riguarda Brisbane, farò solamente alcune considerazioni di carattere generale, dato che il nostro vero Giorno 1 parte dal momento in cui abbiamo lasciato questa città con il nostro magnifico e colorato Jucy Van in direzione sud. Brisbane è una città ospitale, che si può girare tranquillamente in bici essendo coperta quasi interamente da piste ciclabili. Il traffico non è ai livelli nevrotici di Sydney (aiutooooo!!!), gli automobilisti sono abbastanza rispettosi e, soprattutto, ci sono poche auto che girano in città perché i mezzi pubblici qui sembrano funzionare a dovere.

Può capitare di osservare intere colonne di autobus attraversare i ponti che uniscono le varie zone della città… Ci sono un sacco di posti dove mangiare e bere una birra, anche se chiudono un po’ troppo presto per i miei gusti… Dal punto di vista fotografico consiglierei due tipologie di esperienza cittadina: innanzitutto lo skyline; si può riprenderlo in maniera ottimale in diversi punti della città, ma nel mio caso ho trovato un punto strategico in West End, vicino, anzi quasi sotto, la ruota panoramica. Il lungofiume è ciclo-pedonabile e ci sono diversi punti da cui riprendere i grattacieli alla sponda opposta durante il tramonto (FOTO 01), che dura sempre troppo poco durante l’inverno australe, o in notturna (FOTO 02).

La seconda esperienza è una visita ai giardini botanici della city, situati sulla punta sud che dà sul fiume al lato opposto di West End. Qui si possono riprendere dei bellissimi soggetti di carattere botanico (FOTO 03) e avifaunistico (FOTO 04). Gli ibis bianchi australiani sono presenti ovunque (FOTO 05). I giardini sono tenuti benissimo e gli animali (dai pappagalli alle iguane) si sentono come a casa loro. Detto questo, inizierei la storia del nostro viaggio vero e proprio.



Una volta preso a noleggio il Jucy Van presso la filiale di Brisbane, partiamo in direzione Sydney, con grandi aspettative e grande eccitazione, ma senza sapere cosa ci avrebbe atteso nei giorni successivi, oltre alla pioggia, che, ammetto, inizialmente ci stava scoraggiando non poco…
Giorno 1: Brisbane-Byron Bay
Partenza nel primo pomeriggio sotto qualche goccia di pioggia. Destinazione Byron Bay. Una volta imboccata la Pacific Motorway, guidati dal navigatore del nostro iPad (abbiamo usato sempre la app “Mappe”, con notevole soddisfazione, nonostante la pronuncia spesso a dir poco esilarante…), nel giro di un paio d’ore di viaggio superiamo il confine tra lo stato del Queensland e il New South Wales e raggiungiamo la nostra meta. Al buio (attenzione, le giornate d’Agosto sono corte come le nostre di Febbraio…) e sotto una pioggia battente, cerchiamo per qualche decina di minuti il campeggio dove avremmo dovuto passare la nostra prima notte. In Australia è tassativamente vietato campeggiare al di fuori delle zone attrezzate, anche se, una volta che si gira questo paese e ci si rende conto di come ci si senta piccoli al di fuori delle zone abitate, viene abbastanza spontaneo cercare un campeggio per passare la notte serenamente. Il Glen Villa Resort non ci delude. Prezzi buoni, tranquillità e tutti i servizi essenziali (in particolare, cucine ben attrezzate e docce calde e pulite). La cucina italiana, che ci accompagnerà per tutto il viaggio, ci conforta sin da subito, suscitando forse qualche invidia negli altri campeggiatori… Anche una ragazza italiana, di passaggio pure lei, ci riconosce immediatamente, dandoci qualche consiglio circa le temperature che ci avrebbero atteso ad Ayers Rock, nella nostra ultima tappa di viaggio. Ovvero, molto basse, soprattutto di notte e di primo mattino, tanto che avremmo potuto trovare “…il ghiaccio sull’auto…”. Mah… Noi ce ne andiamo a letto tranquilli, anche perché di qui ad Ayers Rock ne doveva passare di acqua sotto i ponti.
Giorno 2: Byron Bay-Coffs Harbour
Al nostro risveglio, ecco finalmente una giornata di sole. Subito dopo una ricca colazione, prepariamo il nostro Jucy e ripartiamo di gran lena. Usciti dal campeggio, pieni di speranze e carichi al punto giusto, ci dirigiamo subito verso il punto panoramico più “quotato” della zona, ovvero Cape Byron, il promontorio più a est dell’Australia territoriale. Attraversando il lungomare di Byron Bay ci rendiamo conto che gran parte dell’economia del paese gira attorno al…surf!!! Presa la salita verso il faro di Cape Byron iniziamo a studiare la conformazione del territorio, una vera e propria lingua di terra rivolta verso l’Oceano Pacifico, dove segna il confine tra il Mar dei Coralli, verso nord, e il Mar di Tasmania, rivolto verso l’omonima isola a sud del continente.

Poco prima di giungere al faro si trova un parcheggio sulla sinistra (da quel punto in poi la strada è a pagamento) da cui si può già ammirare un panorama di fronte al quale non si può rimanere indifferenti, per cui, messe al collo le nostre reflex e con lo zaino in spalla, ci avviamo a piedi verso il faro. I nostri indici destri scalpitavano e facevano pressione in maniera compulsiva sul pulsante di scatto, praticamente ogni 10 metri…

Arrivati in cima, ecco la meraviglia di paesaggio. “Spiagge chilometriche” non può essere un’espressione esauriente per descrivere la striscia di sabbia che, verso sud, scompariva all’orizzonte (Tallow Beach, ndr; FOTO 06). Pochi passi ed eccoci sotto il faro (FOTO 07), da dove si può ammirare l’oceano che si staglia imponente all’orizzonte. Il nostro programma iniziale prevedeva una mattinata di whale watching, ma il mare grosso ha fatto saltare i nostri piani. Eravamo un po’ delusi, ma quando alcune persone iniziano ad indicare verso l’oceano, notiamo che alcune balene si stavano divertendo a saltare tra le onde. Pur non essendo riusciti a fotografarle, le immagini del salto rimarranno impresse nella nostra memoria. Dopo questa breve emozione, scendiamo lungo il sentiero che dal faro porta verso il punto di osservazione di Cape Byron, da dove la visuale sull’oceano è a dir poco appagante (FOTO 08).

Qualche scatto anche da questo punto, in una giornata molto ventosa ma con un sole piacevole, e poi ce ne torniamo su al faro. Dopo qualche sorso d’acqua, torniamo al nostro van per dirigerci alla spiaggia di Byron Bay. Volevamo, finalmente, mettere i piedi in ammollo nell’acqua dell’oceano. Iniziamo a scendere verso la spiaggia, rendendoci conto della quantità di surfisti che stavano andando a sfidare le onde. Dall’alto sembravano delle formichine che dalla spiaggia correvano incolonnate verso l’oceano! Parcheggiato il van sul longomare, prendiamo uno degli innumerevoli corridoi che dalla strada portano verso la spiaggia. Dal punto di vista naturalistico nulla di che, ma mettere i piedi nudi prima sulla sabbia fine dorata e poi nella fresca acqua dell’oceano è stato qualcosa di impagabile.

Trovato il punto più strategico, riprendiamo qualche surfista (FOTO 09) e qualche altro abitante della spiaggia, in particolare una pavoncella mascherata (Vanellus miles) (FOTO 10). Il tempo passa in fretta in questi casi. Decidiamo di fare un po’ di spesa in un minimarket del centro per poi sostare all’ombra del bush australiano di Byron Bay per un panino veloce in compagnia di alcuni simpatici uccelli banana (Entomyzon cyanotis, ndr; FOTO 11). Ed eccoci di nuovo in viaggio verso la tappa successiva, ancora a noi ignota, dato che già al primo giorno di viaggio decidiamo di improvvisare sulla base di dove saremmo arrivati in serata.

Durante il viaggio, a guida alterna, il passeggero/navigatore di turno si occupava di selezionare la località dove si sarebbe passata la notte e, quindi, il campeggio dove fermarci. Coffs Harbour diventa quindi la nostra seconda tappa. Prima del tramonto arriviamo al campeggio Clog Barn, proprio lungo la Pacific Highway (o “Pacific Iguài”, come la chiamava il navigatore :-)). Ancora una volta la pioggia ci fa compagnia durante la cena, che per la prima volta consumiamo all’interno del nostro comodo van. In questo campeggio, infatti, non abbiamo trovato un locale cucina all’altezza (detesto le piastre elettriche…) e abbiamo preferito l’affidabilissimo fornellino a gas del nostro Jucy. Una frittata farcita (verdure e pancetta), pane tostato e un tè caldo soddisfano la nostra fame. Lavati i piatti, dopo il briefing serale per decidere il percorso del giorno successivo, ce ne andiamo di nuovo a nanna.

Giorno 3: Coffs Harbour-Dorrigo National Park-Port Macquarie
Una mattinata fresca ma senza nuvole ci accoglie al nostro risveglio. Colazione veloce, ma ricca, e subito in partenza per quella che si rivelerà una delle nostre mete più emozionanti. Nel nostro briefing serale, infatti, avevamo deciso di puntare verso il Dorrigo National Park nella foresta pluviale del Gondwana, patrimonio mondiale dell’Unesco. Le circa due ore di viaggio ci consentono di ammirare nuovi paesaggi, via via più selvaggi man a mano che ci si avvicinava al parco Dorrigo. All’entrata del parco, semideserta, un piccolo uccellino colorato, uno scricciolo azzurro splendente (Malurus cyaneus) ci dà il benvenuto insieme ad un pigliamosche giallo australiano (Eopsaltria australis; FOTO 12) e, mentre ci prepariamo per l’escursione (vestizione “a cipolla” e attrezzatura fotografica), nel giro di qualche minuto il parcheggio inizia a riempirsi, costringendoci ad accorciare i tempi per non incorrere in sovraffollamenti indesiderati lungo il percorso (ancora non sapevamo…). Dopo aver riempito le nostre borracce di acqua fresca, acquistiamo il biglietto d’entrata pagando una cifra simbolica (più o meno un’offerta libera) e ci informiamo sul percorso chiedendo lumi ai gentilissimi rangers. Una signora ci illustra i diversi percorsi all’interno del parco e ci consiglia di seguire quello di due ore e mezza (denominato “Walk with the Birds”, nome che da solo era sufficiente a farmi pentire di aver lasciato a casa il 400mm…), perché, secondo lei, dedicando del tempo alle fotografie ci avremmo impiegato circa 4 ore. Erano circa le nove del mattino e, se tutto fosse andato liscio come previsto, dopo aver terminato l’escursione avremmo potuto pranzare intorno all’una. Il programma ci sembra perfetto e ci incamminiamo subito, muniti solamente di uno snack al cioccolato, oltre che di due borracce piene d’acqua. Mai avremmo pensato che quello snack sarebbe stato il nostro pranzo…

Un piccolo passo indietro. La scelta del Dorrigo National Park era stata fatta anche perché sembrava che la peculiarità di questo parco consistesse in una passerella collocata ad altezza notevole che si estendeva sulla foresta pluviale sottostante, consentendo di ammirare un panorama degno di questo nome. Entrati nel parco, tuttavia, la passerella ci ha tenuti occupati solamente per pochi minuti, anche per colpa delle nuvole basse. Ci addentriamo, quindi, nella foresta pluviale. Dopo i primi 40-50 metri, sfoderiamo i nostri “pezzi da 90”, iniziando a riprendere qualsiasi cosa ci sembrasse degna di essere fotografata: alberi di qualsiasi specie, tronchi, radici, liane, accompagnati dai suoni tipici di una foresta pluviale. La prima immagine che colpisce i miei occhi è quella che ho ammirato guardando verso l’alto. Le altezze raggiunte dagli alberi sono notevoli e quella mattina dipingevano un incredibile gioco di prospettive sviluppato in altezza, con le liane che si arrampicavano sugli alberi e le nuvole basse che facevano da sfondo (FOTO 13).

Gli alberi della foresta pluviale hanno evoluto una strategia di crescita che consente loro di svilupparsi in altezza con una certa sicurezza, grazie anche alla presenza dei cosiddetti “contrafforti radicali” che impediscono oscillazioni eccessive alla base del tronco che, in presenza di vento forte, potrebbero portare al crollo dell’albero. Da questo punto di vista, gli alberi del Dorrigo rappresentano un esempio “didattico” per quanto riguarda questo tipo di strutture. Il sottobosco della foresta pluviale è, in apparenza, povero, a causa della scarsità di luce solare in grado di penetrare le folte chiome degli alberi. Nel caso della foresta del Dorrigo, essendo questa disposta lungo dei pendii collinari con pendenze variabili, la luce del sole riesce talvolta a penetrare e a favorire la formazione di piccole giungle di liane intrecciate, con felci, arbusti vari dalle foglie colorate, muschi e funghi che ricoprono qualsiasi tronco caduto. Ma torniamo alla nostra escursione.

Le ore passavano senza che ce ne rendessimo conto e prima di mezzogiorno avevamo percorso solamente una piccola parte del tracciato previsto, rallentati ogni tanto da qualche acquazzone (d’altra parte, eravamo nella foresta pluviale…) che più di tutto ci impediva di tenere a portata di mano la nostra attrezzatura. Ad un certo punto decidiamo di procedere comunque anche sotto la pioggia, mettendo alla prova la nostra attrezzatura (a proposito, la mia 7D non ha deluso le aspettative…). Tra le tappe degne di nota, vanno sicuramente annoverate le Tristania Falls (FOTO 14), una delle due cascate che si incontrano lungo il percorso. A questa tappa dedichiamo circa mezzora. Mentre il tempo continuava a scorrere, fra una pausa e un acquazzone, il nostro snack al cioccolato iniziava a consumarsi. A questo punto mi sovviene un aneddoto, che anche in questo caso dà una misura di quello che è l’Australia. Mentre stavamo passeggiando in silenzio per cogliere i suoni della fauna, ad un certo punto parte un suono di chiamata Skype dallo zaino di Franco. Ebbene, in piena foresta pluviale c’era copertura 4G!!! Dopo una breve videochiamata con la famiglia in Italia, riprendiamo la nostra escursione, ed è a questo punto che la foresta ci fa la più grossa sorpresa che potessimo immaginare. Lungo il cammino, ad un certo punto, ci taglia la strada uno dei tanti tacchini onnipresenti in Australia, richiamando temporaneamente la nostra attenzione. Nell’esatto istante in cui notiamo il tacchino, sulla nostra destra, lungo un lieve pendio, un movimento decisamente più importante inizia ad attrarre la nostra attenzione. Un wallaby, in seguito identificato come Wallabia bicolor (o Wallabia delle paludi), avendo notato la nostra presenza, puntava il suo sguardo attento verso di noi (FOTO 15).

I nostri indici iniziano quasi immediatamente a saltellare sul pulsante di scatto, ed è qui che mi pento di avere con me solamente 105mm. Franco, armato di 300mm, prende subito l’iniziativa ed io, un po’ scoraggiato, a seguire. Fra un boccone e l’altro, il wallaby continuava a pasteggiare tenendoci sott’occhio. Cerchiamo di avvicinarlo, mentre gli otturatori quasi fondevano sotto le raffiche di scatti e, nonostante l’obiettivo corto, porto a casa qualche scatto decente (e qualche video) prima che il wallaby con 2-3 salti scomparisse dietro gli alberi. In queste occasioni gli occhi di un appassionato di fotografia si riconoscono subito e, guardando Franco, mi rendo conto che l’emozione era stata forte.

A questo punto, erano circa le 3 del pomeriggio, riprendiamo a seguire il percorso raggiungendo un’altra tappa degna di nota, le Crystal Shower Falls (FOTO 16). Anche in questo caso, dedichiamo circa mezzora ai doverosi scatti d’ordinanza, per poi ripartire verso l’ultima parte del tragitto, percorsa tra le nuvole basse e umide che improvvisamente entrano nella foresta filtrando i raggi del sole, ormai basso sull’orizzonte a causa delle corte giornate invernali (FOTO 17).

Dopo quasi otto ore, il percorso che doveva durarne meno di tre si stava concludendo, dandoci anche la possibilità di vantarci di qualche nostro scatto con i rangers che, sorpresi soprattutto dalla “cattura” del wallaby, si complimentano con noi, informandoci del fatto che nell’ampia superficie del parco, circa 120Km2, erano presenti solamente 2-3 esemplari di quella specie. Si faceva sera e, dopo una breve sosta per un cambio veloce, ci avviamo alla volta di…non sapevamo dove. Puntiamo verso sud, cercando, nel frattempo, un campeggio nei dintorni di Port Macquarie. Verso le sei di sera (buio pesto…) arriviamo al primo campeggio che avevamo individuato: tutto pieno. Puntiamo quindi verso il secondo candidato, il Camping Marina Holiday Park. L’ora tarda ci costringe a suonare il campanello e un personaggio tendenzialmente gentile ma soprattutto animato da una discreta quantità di alcol, come testimoniato dall’alito, ci accoglie. Aperta la portineria e registrata la nostra presenza, ci guida verso il nostro posto all’interno del piccolo, ma ben organizzato, campeggio. Parcheggiato il Jucy, prepariamo una cena degna di questo nome e, finalmente, recuperiamo un po’ di forze, prima sotto la pioggia, decisa ad accompagnarci per tutto il viaggio, e poi sotto una volta stellata che ci fa ben sperare per il giorno successivo (FOTO 18). Stanchi per la giornata intensa e incerti sul domani, ci mettiamo a dormire.

Giorno 4: Port Macquarie-Port Stephens/Shoal Bay
La mattina successiva è segnata da un tempo molto variabile e decidiamo di fare una sosta logistica, anche per riposarci un po’. Passiamo la mattinata a fare il bucato e a cercare di asciugarlo durante i pochi momenti di sole disponibili. Lasciamo il campeggio all’ora di pranzo, sotto un sole intenso e piacevole, per dirigerci al Supermercato Coles di Port Macquarie dove rimpinguare le nostre scorte di cibo. Dopo aver fatto una spesa piuttosto generosa, sostiamo vicino ad uno dei piccoli porticcioli di pescatori, dove il piccolo fiumiciattolo Kooloonbung incontra il fiume Hasting. Approfittando della presenza di qualche tavolo e panchina all’ombra degli alberi, facciamo un pranzetto veloce in compagnia di qualche gazza burlona (Grallina cyanoleuca) (FOTO 19). La nostra attenzione viene quindi attratta dalla presenza di alcuni pellicani, ai quali decidiamo di dedicare una parte significativa del nostro tempo, considerando che il resto della giornata sarebbe stato poi dedicato allo spostamento verso la meta successiva, ancora da definire.


Ci piazziamo quindi nei pressi del porticciolo, dove i pellicani (Pelecanus conspicillatus) sembravano a loro agio non curanti della nostra presenza (FOTO 20). Qualche centinaio di scatti fanno trascorrere il tempo in men che non si dica. Alla fine, verso le 3 del pomeriggio, partiamo verso una destinazione ancora da definire, sempre puntando verso sud sulla Pacific Highway. Durante il viaggio, valutiamo la possibilità di sostare nei pressi di Port Stephens, un paesino lungo la costa a circa una sessantina di chilometri a nord di Newcastle. Dopo circa 3 ore di viaggio, poco prima del tramonto, arriviamo al Camping Shoal Bay Holiday Park, sull’omonima baia. Dopo le ormai consuete operazioni di registrazione e piazzamento, decidiamo di effettuare subito una breve escursione seguendo i suggerimenti del gentilissimo personale del camping. A qualche minuto di strada dal campeggio, parcheggiamo il nostro van e prendiamo il sentiero che porta al Tomaree Lookpoint, in cima all’omonimo monte che domina tutta la baia e sito di valore storico per la Seconda Guerra Mondiale. Il sole stava ormai tramontando e decidiamo di arrivare in cima speditamente. In circa mezzora di cammino veloce, arriviamo sui punti di osservazione più interessanti e facciamo qualche decina di scatti. Purtroppo le nuvole coprivano il sole in maniera non proprio fotogenica e gli scatti ne hanno un po’ sofferto (FOTO 21).

Nonostante il forte vento, qualche scatto lo portiamo a casa anche dal monte Tomaree, con una vista splendida verso l’oceano e le tre isole antistanti la baia (Boondlebah, Cabbage Tree e Little Cabbage tree). Queste isolette vanno ricordate come l’unico sito al mondo dove nidifica il petrello alibianche (Pterodroma leucoptera). Degna di nota anche la spiaggia sottostante il monte, la Zenith Beach, che attira la nostra attenzione per un potenziale sopralluogo all’alba, seguita da altre due spiagge presumibilmente apprezzate dai surfisti, Wreck Beach e Box Beach. Una volta scesi dal monte facciamo una prima verifica ed effettivamente la spiaggia sembrava strategica. E’ ormai buio quando rientriamo al campeggio. Dopo una doccia rigenerante, scopriamo con nostro immenso piacere che nel camping c’era una sala giochi con un tavolo da ping-pong a cui decidiamo di dedicare il dopocena. Vista la disponibilità di un locale cucina ben attrezzato, ne approfittiamo per preparare una cena di quelle importanti, ovvero pasta con soffritto di verdure, fagioli in umido e bistecca sulla piastra. Una cosa seria, insomma… Alcuni ragazzi tedeschi stavano cenando prima di noi, orgogliosi della loro pasta. Alla vista del nostro capolavoro, non hanno potuto far altro che arrendersi all’evidenza: surclassati!!! Dopo cena, ci rilassiamo con una bella partitina a ping-pong e scarichiamo le foto dalle nostre reflex. Poi tutti a nanna, ancora una volta senza programmi per l’indomani, ad eccezione del sopralluogo alla Zenith Beach pianificato per l’alba.
Giorno 5: Port Stephens/Shoal bay-Budgewoi
Ci svegliamo intorno alle 6 e in poco tempo usciamo dal campeggio per raggiungere la Zenith Beach, nonostante il cielo densamente nuvoloso non offrisse le condizioni ottimali per un’alba particolarmente fotogenica. Decidiamo comunque di effettuare il sopralluogo alla spiaggia, come pianificato. Dopo aver percorso il breve sentiero che separa il parcheggio dalla spiaggia, si presenta di fronte a noi un oceano piuttosto agitato con onde alte talvolta qualche metro e una spiaggia “schiumosa” (FOTO 22).

L’atmosfera, seppure non particolarmente degna di nota dal punto di vista fotografico a causa delle nuvole, era molto particolare dal punto di vista cromatico, tanto che in seguito avrò più di qualche difficoltà a bilanciare il bianco. La particolarità di quella mattina, tuttavia, è di altro genere, dato che Franco ha ben pensato di fare qualche foto subacquea fuori stagione… La sua D300 sembra avere ben sopportato le condizioni estreme che si è trovata a fronteggiare così all’improvviso, quando un’onda anomala è andata un po’ più lunga delle altre: mai dare le spalle all’oceano!!! Costretti ad un rientro in camper anticipato non ci scoraggiamo più di tanto. Franco, in realtà, un po’ sì, ma il tutto è durato solo qualche minuto, fino a quando ci accertiamo che non ci sono danni all’attrezzatura. Rientrati in campeggio, facciamo colazione in tutta tranquillità ed iniziamo a programmare la giornata anche sulla base dei consigli dei gentilissimi gestori del campeggio.

Mentre uno dei nostri vicini di piazzola distribuisce cibo ai pappagalli (FOTO 23), a metà mattinata decidiamo di muoverci verso un punto panoramico denominato Gan Gan lookout point, dall’omonima collina. Nel giro di circa un quarto d’ora raggiungiamo il punto di osservazione. Da un comodo parcheggio si arriva tramite un percorso di qualche decina di metri ad una piccola piazzola di forma circolare da dove si può ammirare il panorama di tutta la baia, circondati dai tipici fiori del bush australiano, i Gymea Lily (Doryanthes excelsa). Dopo qualche minuto passato ad ammirare il paesaggio, continuando a riflettere sulla possibile tappa pomeridiana, ci accorgiamo che la zona era parecchio trafficata. Mi spiego meglio. I fiori da cui eravamo circondati, infatti, rappresentavano un’attrazione evidentemente irrinunciabile per numerose specie di uccelli, di piccola e media taglia, su cui abbiamo concentrato la nostra attenzione per le successive due ore. Tra una foto e l’altra, ci ha fatto compagnia anche uno dei simboli più noti dell’Australia: il Kookaburra.

Diversi esemplari di questa strana specie (Dacelo novaeguineae) si sono lasciati avvicinare abbastanza facilmente, facendosi scattare diverse foto (FOTO 24). Poi, ad un certo punto, ci siamo accorti che in cima alla torre di trasmissione piazzata sul monte, a pochi passi dalla piazzola di osservazione, c’era un nido che, sulla base di quanto riportato sul cartello informativo presente nel posto, avrebbe dovuto ospitare un’aquila pescatrice (Osprey, in inglese; in italiano anche falco pescatore; Pandion haliaetus). Con il proposito di tenere d’occhio il nido, continuiamo a fare scatti a raffica ai simpatici occhialini dorsogrigio (Silvereye, in inglese; Zosterops lateralis) che sostavano sui fiori (FOTO 25), intervallati di tanto in tanto da altre specie, come ad esempio gli Spinebill (Acanthorhynchus tenuirostris), i White-cheeked honeyeater (Phylidonyris niger), o i Red wattlebird (Anthochaera carunculata), melifagidi dai colori più o meno sgargianti (FOTO 26).


Durante le due ore di permanenza sul posto, ci intratteniamo con i vari turisti di passaggio, alcuni dei quali fanno in tempo ad andarsene e a ritornare, trovandoci ancora lì a scattare foto, compulsivamente. A questo punto, ecco comparire nella nostra avventura una di quelle persone che non si dimenticano facilmente, la fantomatica Mrs. Ten Dollars!!! Mentre stavamo ripartendo, ancora una volta senza esserci prefissati una meta, una signora ci avvicina e, con un tono abbastanza insistente, al punto tale da mostrarci un filmato ripreso con il suo smart phone, ci suggerisce “caldamente” di andare a visitare Birubi Beach. Il filmato mostrava dei ragazzi che scendevano con una tavola lungo un pendio piuttosto ripido di una duna di sabbia. Perché “ten dollars”? Perché quello era il costo del biglietto dell’escursione con il pulmino fra le dune di sabbia di quello che effettivamente sembrava più un deserto che una spiaggia. E la signora continuava ad insistere “…only 10$…go there! go there!…only 10$…it’s cheap…”. Infastiditi (anche solo dall’idea di poter passare per dei morti di fame che potevano permettersi solo un’escursione da 10$…) ma incuriositi, partiamo alla volta di questa fantomatica Birubi Beach. Dopo circa 10-15 minuti di strada, guidati dal nostro navigatore, raggiungiamo un parcheggio con vista su questo posto che non esiterei a definire sorprendente (FOTO 27).

Decidiamo di pranzare con un ricco panino prima di avventurarci a piedi in quello che sembrava a tutti gli effetti un deserto con vista sull’oceano. Birubi Point, infatti, è solamente il punto più a nord di una spiaggia lunga circa 32 Km, denominata Stockton Beach, dall’omonima cittadina che limita a sud la spiaggia stessa. L’insieme della lunga spiaggia e della porzione di deserto che sta alle sue spalle prende, invece, il nome di Golden Bight. Decidiamo, quindi, di avventurarci tra le dune. Il forte vento e il sole cocente ci impongono una configurazione tipicamente da Tuareg, aiutandoci a fronteggiare le circa 4 ore di escursione intervallate da numerose soste fotografiche tra le dune. I disegni che il vento continuava a plasmare sulla sabbia erano qualcosa di veramente particolare (FOTO 28).

Grazie anche all’atmosfera particolare determinata dalle nuvole che passavano velocemente e continuamente davanti al sole, Stockton Beach si è rivelato uno dei posti più belli ed indimenticabili tra quelli visitati durante il nostro viaggio (FOTO 29).

Al termine dell’escursione, soddisfatti per il bottino fotografico, riprendiamo il nostro viaggio verso Sydney, dove, secondo programmi, saremmo dovuti arrivare l’indomani mattina per riconsegnare il nostro Jucy. Nel giro di un paio d’ore, superiamo Newcastle e decidiamo di cercare un campeggio a circa 100Km dalle porte di Sydney. E’ già buio quando arriviamo al campeggio prescelto. Qui, costretti dalla tarda ora a suonare il campanello di una portineria deserta, troviamo un altro dei personaggi che hanno segnato il nostro viaggio. Si tratta di Mr. Absolutely. Quando chiediamo, infatti, se avesse un posto libero per la notte, la risposta piccata è un “Absolutely full!!!”. La nostra stanchezza, fortunatamente, non riesce a sopraffare la nostra educazione. Vedendoci mantenere la calma, l’antipatico portinaio, forse anche sospinto da un improvviso, sebbene giustificato, senso di pietà nei nostri confronti, ci suggerisce un campeggio alternativo e ci controlla attentamente mentre facciamo manovra per uscire. Dopo qualche chilometro arriviamo al Budgewoi Holiday Park. Una coppia molto gentile, pur tenendoci fuori dalla portineria, ci fa compilare sotto un principio di nubifragio i vari documenti e ci assegna una piazzola non molto lontano dal lago Munmorah, cosa che crea i presupposti per gli incubi che avrò più tardi durante la notte. Stanchi ed affamati, dopo una doccia calda decidiamo di cenare alle cucine del campeggio. La pioggia ed il vento insistente non erano proprio il compagno di cena ideale, anche considerando che le cucine erano aperte. Nonostante tutto riusciamo a preparare una delle nostre cene più memorabili (se c’è una cosa di cui non abbiamo sofferto in Australia, quella è la cucina…). Dopo un breve contatto visivo con un ragno non proprio simpatico posizionato sulla colonnina dell’elettricità della nostra piazzola, ci mettiamo a dormire per quella che sarà la nostra ultima notte nel Jucy van. Notte che si rivelerà indimenticabile per la pioggia battente che ha accompagnato i miei incubi del lago che esondava (con annessi coccodrilli).
Giorno 6: Budgewoi-Sydney/Blue Mountains
Sveglia alle sei. Dopo una veloce colazione, riprendiamo la Pacific Motorway alla volta della tappa finale del nostro tour in camper, dove un nostro amico ci avrebbe accolti: Sydney…arriviamoooooo!!! Ben presto iniziamo a percepire l’atmosfera della grande metropoli. Il paesaggio inizia a cambiare già diverse decine di chilometri prima di entrare nella città vera e propria, ma il primo “sintomo” di Sydney lo troviamo nel traffico, via via sempre più intenso fino a quando non ci troviamo ad attraversare l’Harbour Tunnel, una galleria a pagamento (il pedaggio si può pagare a posteriori) davvero molto trafficata, tanto che proprio qui, per la prima volta, sbagliamo strada. Niente paura, il nostro navigatore ci riporta subito sulla retta via e dopo poco tempo arriviamo all’hotel che ci avrebbe ospitato per la notte successiva, il North Sydney Harbourview. Lasciati velocemente i bagagli all’hotel, riprendiamo il nostro van per consegnarlo alla sede Jucy di Sydney, dove il nostro amico Aiman ci stava aspettando per passare qualche ora in compagnia. Dato che per la mattina successiva avevamo fissato la partenza in aereo per Ayers Rock, ci eravamo imposti di trascorrere una giornata tranquilla in compagnia con una breve escursione alle Blue Mountains, la catena montuosa alle spalle di Sydney, che prende il nome semplicemente dal fatto che dalla città, in lontananza, le montagne ricoperte di eucalipti appaiono blu (che fantasia…).

Dopo una breve sosta a Penrith per un pranzetto a base di carne di canguro cotta al momento sulla roccia rovente, arriviamo alle Blue Mountains con un tempo abbastanza nuvoloso, tendente alla pioggia, per ammirare le famose Three Sisters. Si tratta di tre spuntoni di roccia allineati, molto simili tra loro (da cui le “tre sorelle”), posti in una posizione tale da poter essere facilmente osservati da un punto di osservazione appositamente allestito (FOTO 30). Nulla di speciale, a dire il vero. Quando comincia a piovere intensamente è già arrivato il momento di tornare verso Sydney. Aiman ci riaccompagna al nostro hotel e rimaniamo d’accordo di rivederci dopo due giorni, al nostro ritorno da Ayers Rock. Dopo un breve pit stop in camera, ceniamo in una pizzeria italiana poco distante dall’albergo, giusto per non farci mancare nulla. Nonostante qualche goccia di pioggia, decidiamo di fare una breve escursione fotografica in notturna. Dall’hotel si accede direttamente ad un percorso pedonale che scende lungo il pendio passando per un parco per poi costeggiare Lavender Bay e passare sotto il Sydney Harbour Bridge. Lungo il percorso ci rendiamo subito conto che lo skyline di Sydney riflesso sulla baia meritava qualche ciclo di usura dei nostri otturatori. Dopo aver attraversato il ponte troviamo un primo punto panoramico, forse troppo sotto il ponte stesso. Grazie all’intraprendenza di Franco, troviamo un appostamento decisamente migliore molto più avanti, su una postazione completamente buia e leggermente rialzata da cui si poteva ammirare lo skyline completo dall’Opera House Theater (FOTO 31) fino al Sydney Harbour Bridge con i colori delle luci dei grattaceli riflessi sull’acqua.

Qui scatto una serie di foto tra le più belle che siano mai state generate dal sensore della mia 7D (FOTO 32). Stanchi, ma soddisfatti, facciamo rientro in hotel un paio d’ore più tardi, pronti ad affrontare un viaggio emozionante e ancora pieni di entusiasmo come il primo giorno.

Giorno 7: Sydney-Ayers Rock
Il mattino successivo non ci svegliamo prestissimo, dato che il nostro aereo per Ayers Rock sarebbe partito in tarda mattinata. Facciamo colazione con calma e prendiamo un taxi per l’aeroporto di Sydney, da cui partiamo intorno alle 11 in direzione Northern Territory. I paesaggi che attraversiamo durante le circa tre ore di volo sono abbastanza rappresentativi di quello che è l’Australia, ovvero un grosso deserto circondato dalla civiltà!!! Infatti, dopo aver lasciato alle nostre spalle la zona di Syndey e della sua periferia, sorvoliamo le Blue Mountains, che sembrano una specie di polmone verde della metropoli, per poi iniziare ad ammirare un paesaggio abbastanza monotono fatto di deserto, qualche corso d’acqua e laghi salati dalle forme più disparate. La vegetazione, ove presente, è costituita per la maggior parte da arbusti o da alberi striminziti (o secchi). Più ci addentriamo nel continente australiano e più le strade asfaltate lasciano il posto a quelle sterrate. E soprattutto, non c’è anima viva. Dopo circa tre ore iniziano le manovre di avvicinamento all’aeroporto di Ayers Rock che, in maniera molto intelligente, prevedono un giro a 360°C che consente a tutti i passeggeri di ammirare le due formazioni montuose che rappresentano la maggiore attrazione del posto, Uluru e le Olgas. Dopo un dolce atterraggio usciamo dall’aereo e ci rendiamo subito conto di aver fatto un viaggio molto lungo, poiché, ad attenderci, non c’era il clima umido che avevamo lasciato sulla costa est, ma un clima secco e, soprattutto, un’atmosfera quasi lunare, per quanto isolati ci si sentiva in quel posto, consapevoli di cosa c’era attorno. Per ultimi ci accodiamo per il noleggio auto, una Toyota Yaris già prenotata diversi mesi prima. Se dovessi dare un consiglio, direi che accodarsi per ultimi al noleggio auto è sempre da prendere in considerazione. Infatti, quando l’auto prenotata non è più disponibile, l’agenzia (Hertz, ndr) è sempre obbligata, da contratto, a rimpiazzarla con una di segmento superiore. Arrivati al parcheggio con le chiavi, realizziamo che, premendo il pulsante di apertura del telecomando, lampeggiano immediatamente le frecce di un fiammante Nissan X-Trail. A questo punto mi verrebbe spontaneo fare una recensione di questa splendida auto, cosa che tralascio e che, in parte, decido di rimandare ad una foto di cui parlerò più tardi. Lasciato l’aeroporto ci dirigiamo verso il dormitorio che ci avrebbe ospitato per la notte, anche questo prenotato mesi prima, l’Outback Pioneer Lodge di Yulara, un piccolo villaggio turistico a metà strada tra le Olgas e Uluru. Dopo la registrazione e un pranzo veloce a base di pizza, passiamo qualche ora in tranquillità e relax prima di riprendere il nostro X-Trail in direzione Kata Tjuta, nome alternativo dei monti Olgas, che nella lingua locale significa “molte teste”. In effetti, l’aspetto di queste montagne dal lato verso ovest, quello rivolto al tramonto da cui si accede per un breve percorso al loro interno, è proprio quello. Una visione alternativa potrebbe farle sembrare qualcos’altro, ma su questo non mi dilungo… Arriviamo al parcheggio da cui si parte per l’escursione a piedi dopo meno di un’ora di viaggio, percorrendo i circa 50 Km che ci separano da Yulara in tutta tranquillità, godendoci un paesaggio a tratti surreale. I nostri piani, per le circa 24 ore di permanenza ad Ayers Rock erano di ammirare il tramonto a Kata Tjuta per poi fare la stessa cosa all’alba ad Uluru, con relative escursioni rispettivamente pre- e post-. Ci avviamo a piedi verso un largo corridoio tra le montagne che, va detto, sono ritenute dagli aborigeni tanto sacre quanto Uluru. I cartelli lungo il percorso invitano, infatti, a non uscire da quest’ultimo, visibilmente segnato e a tratti transennato. Ci concediamo, tuttavia, qualche strappo alla regola, senza esagerare, per poter riprendere il luogo dalla prospettiva che meritava. Non saprei cosa aggiungere a quello che ho cercato di fissare attraverso i numerosi scatti effettuati durante il tragitto, durato circa un’ora e mezza a causa delle frequenti, ma doverose, soste contemplative (FOTO 33).

L’atmosfera, ancora una volta nel nostro viaggio, crea una sorta di estasi, in un surreale silenzio, rotto di tanto in tanto dallo stridere di qualche rapace che, dai nidi lungo i ripidi pendii, partiva per la caccia serale. Una piccola pozza d’acqua lungo il percorso fa da altare a qualche scatto, raddoppiando nei riflessi l’intensità dei colori forti delle rocce e del cielo terso dell’outback (FOTO 34).

Alcune foto, riviste dopo qualche mese, riportano alla mente l’ambientazione a tratti marziana delle Olgas (FOTO 35). Il tempo passa e decidiamo di tornare sui nostri passi per posizionarci a distanza dovuta al momento del tramonto. In pochi minuti raggiungiamo una piazzola destinata allo scopo e piazziamo i nostri treppiedi. Anche qui raccogliamo alcuni tra i migliori scatti del nostro viaggio, con le montagne di Kata Tjuta letteralmente infuocate dalla calda luce del sole che tramontava alle nostre spalle (FOTO 36). Unico “neo”, se così lo si può definire, in questi due giorni il cielo, talmente terso da non essere minimamente “interessante” dal punto di vista fotografico. Pazienza, l’assenza di nuvole ci tornerà utile qualche ora più tardi…


Erano quasi le sette di sera quando decidiamo di rientrare al dormitorio. Dopo una cena leggera, ci piazziamo nella stanza da 4 posti a noi assegnata, già in parte occupata da due ragazze che più tardi avrebbero popolato i nostri incubi notturni. Tralascio i dettagli. Infatti, decidiamo di inserire una variazione nel nostro programma serale. Dopo una doccetta, ripartiamo quasi subito, optando per una sessione notturna di fotografia, nonostante nessuno di noi fosse attrezzato (né preparato) in maniera specifica per foto di questo genere. E’ bastato allontanarsi per qualche chilometro dal villaggio per lasciare alle nostre spalle il già scarso inquinamento luminoso. Ad un certo punto accostiamo lungo la strada. Usciamo dall’auto. Alziamo gli occhi al cielo. Pausa (FOTO 37).

Premessa. Non sono mai stato un appassionato di montagna, prevalentemente per pigrizia, e poche volte mi è capitato di poter ammirare la volta stellata senza inquinamento luminoso. Forse solamente durante i campiscuola parrocchiali che ho frequentato da ragazzo. Ma qui, ragazzi, penso di poter dire che la faccenda è un po’ diversa. Innanzitutto, dall’emisfero australe si può osservare una porzione di cielo solitamente invisibile ai nostri occhi “boreali”. Poi va anche detto che nel periodo dell’anno intorno a fine agosto il cielo di Ayers Rock è particolarmente terso, come fatto notare sopra, e libero dall’umidità. Risultato? Quello che le foto possono raccontare, ancora una volta, solo in parte. Sembrava una lezione di astronomia a cielo aperto, una sorta di spettacolo organizzato dalla natura, dove ad occhio nudo si poteva ammirare di tutto, a partire dal cuore della nostra galassia, la Via Lattea, fino alle varie nebulose che da non esperto non ho saputo riconoscere, anche perché non potevo immaginare di dovermi preparare a tanto. La nostra eccitazione era palpabile. Ci siamo disposti inizialmente con i treppiedi a bordo strada per poi spostarci al centro della carreggiata, dato che il traffico era praticamente pari a circa un auto all’ora.

Dopo qualche prova iniziale per la taratura tempi/diaframma/ISO, abbiamo fatto alcune esposizioni sufficientemente lunghe e qualche serie di scatti panoramici da unire in post-produzione. Non possedendo la tecnica per questo tipo di riprese, sono andato ad istinto e qualche foto l’ho portata a casa (FOTO 38). Il più ispirato, come sempre, è stato il mio compagno di avventure, Franco. Mentre cambiavo una lente con le porte dell’auto aperte, Franco ha colto uno scatto molto particolare, che ne ha poi ispirati altri, quasi di carattere pubblicitario, per l’auto intendo (FOTO 39). Ad un certo punto della notte, seppure a malincuore, decidiamo di far ritorno al villaggio. Rientrati al dormitorio e puntata la sveglia a circa un’ora prima dell’alba, non ci restava altro che dormire con le coperte ben strette tra le mani. Le compagne di stanza avevano infatti carburato con qualche calice di vino e nessuna delle due era particolarmente “avvenente”, usando un eufemismo. Notte.

Giorno 8: Ayers Rock–Sydney
Al suono della sveglia non esitiamo. In pochi minuti siamo pronti a partire. Check-out e via con il nostro X-Trail, destinazone Uluru. Era ancora buio, ma il sole sembrava affrettarsi ad uscire. Dopo circa mezzora abbiamo già percorso la ventina di chilometri che ci separavano da Uluru, più precisamente dal punto di osservazione dedicato all’alba, denominato Uluru Sunrise Viewing Platform. Come tutti i percorsi all’interno del parco di Uluru-Kata Tjuta, anche in questo caso troviamo un parcheggio ordinato, pulito ed attrezzato per brevi soste. I turisti che come noi non volevano perdersi l’alba in un posto così speciale sono numerosi, anche se non troppi da intasare il breve percorso pedonale da seguire per raggiungere i punti di osservazione migliori. Io e Franco ci fermiamo poco dopo un gruppo di alberi, lasciandoli alle nostre spalle. Di fronte a noi, maestosa nella sua sacralità, ecco Uluru, il monte sacro per antonomasia degli aborigeni. Al nostro arrivo la roccia rossa non era ancora illuminata dal sole ed abbiamo il tempo per piazzare i treppiedi appena fuori dal percorso. I rangers del parco, qualche minuto più tardi, ci inviteranno a rientrare con la nostra attrezzatura all’interno delle transenne di corda che limitano l’area calpestabile. In quel momento, fortunatamente, avevamo già eseguito i nostri migliori scatti, dato che la luce dell’alba alle nostre spalle aveva già letteralmente infiammato il monte sacro, rendendolo ancora più unico e sacro di quanto già non si percepisse (FOTO 40).

Le Olgas si stagliavano qualche chilometro più in là a sinistra di Uluru a ricordarci che anche loro sono sacre quanto quest’ultima. Il sole saliva velocemente, dandoci però il tempo per scattare decine di foto. Eseguo diversi scatti con entrambi i corpi macchina che avevo con me, facendone alcuni in serie per poter poi fare un merge ad alta definizione di circa una dozzina di scatti (FOTO 41). Qualche uccellino fischiettante sugli alberi ci ricorda che è iniziato il nostro penultimo giorno australiano e decidiamo, quindi, di affrettarci per la nostra escursione intorno al monte sacro. Quella mattina, purtroppo, non avevamo avuto il tempo per fare colazione e, senza il nostro Jucy Van, saremmo poi rimasti per tutta l’escursione attorno ad Uluru senza nemmeno una briciola di pane. Questo non ci peserà più di tanto, perché, come spesso è accaduto durante questa avventura, come nel pieno della foresta pluviale del Dorrigo, l’adrenalina è stata la nostra abbondante colazione, pranzo e cena.

Ci spostiamo in auto di qualche chilometro, dal punto di osservazione dell’alba al parcheggio che si trova all’estremità meridionale di Uluru, da cui si accede per l’escursione attorno al monte in direzione antioraria. Mentre iniziamo la nostra passeggiata, si percepisce immediatamente la sacralità del posto, sensazione rafforzata anche dalle forme tondeggianti, spesso rotte da crepe e gole improvvise, che caratterizzano Uluru (FOTO 42).

La giornata è molto soleggiata e la temperatura gradevole. Il suolo rosso polveroso di Uluru, gli alberi rinsecchiti e i tronchi spogli stesi sul terreno che spesso incontriamo sul nostro percorso contrastano con le piccole nicchie di verde che spuntano fuori qua e là, con qualche fiore colorato ad indicare la ciclica vitalità della natura che circonda il monte (FOTO 43).

Molto spesso durante questa escursione, come fatto notare in precedenza, il paesaggio prende forme e colori tipicamente marziani (FOTO 44), ricordando vagamente le foto scattate dai rover Spirit e Curiosity sulla superficie del pianeta rosso, che qualche anno fa intasavano siti internet e telegiornali. Il percorso si conclude dopo circa due ore sul punto denominato Kuniya Piti, sito definito “sensibile” dalla cartellonistica che ricorda ai turisti di portare rispetto. Mentre la fame inizia a farsi sentire, torniamo rapidamente sui nostri passi e in circa mezzora riusciamo a ripercorrere il sentiero in direzione inversa. La luce era già cambiata e Uluru restituiva nuove cromie e sensazioni (FOTO 45).

Ma non c’era più tempo. Decidiamo di rientrare a Yulara per pranzare e prendere qualche souvenir per famigliari ed amici, mentre il sole, come diciamo noi veneti, “mangiava le ore” (cit. el soe magna e ore). Un piccolo aneddoto: lungo il percorso, poco prima dell’uscita del parco, troviamo uno zaino in mezzo alla strada e decidiamo di portarlo ai ranger cercando di raccogliere tutto quello che si era disperso per la carreggiata presumibilmente in seguito alla caduta da qualche mezzo. Tra i vari indumenti che raccogliamo troviamo anche alcune palle da biliardo in versione mignon… Mah, paese che vai… Dopo un pranzo veloce, salutiamo Yulara per dirigerci verso l’aeroporto di Ayers Rock dove il nostro volo sarebbe partito di lì a meno di due ore. Consapevoli di aver passato due giorni che rimarranno a lungo indelebili nelle nostre menti, rientriamo a Sydney. Come accaduto all’arrivo durante le manovre di atterraggio, anche dopo il decollo, prima di prendere quota, i piloti effettuano qualche manovra che ci consente di ammirare dall’alto i posti magici che avevamo visitato.

Arriviamo a Sydney quando è ormai sera. Prendiamo un taxi che dall’aeroporto ci porta in pochi minuti al nostro hotel, lo stesso dove avevamo sostato due giorni prima, ma questa volta diversi piani più in alto. Abbastanza stanchi e provati dal viaggio aereo, decidiamo di cenare con un’altra pizza da Capitano’s (oggi ha cambiato nome, si chiama Via della Spiga, ndr), un ristorante-pizzeria gestito da italiani, a due passi dal nostro hotel. Rientriamo in stanza, scarichiamo le centinaia di foto dalle reflex e facciamo un backup come ogni sera. Poi crolliamo sul letto nel giro di pochi minuti.
Giorno 9: Sydney
Al risveglio, il mio primo pensiero va subito al fatto che questo sarebbe stato l’ultimo nostro giorno in Australia. Preparate mestamente le valigie, dopo aver fatto colazione, ci dirigiamo subito verso la stazione della metro più vicina, per raggiungere in pochi minuti la stazione centrale di Sydney, dove il nostro amico australiano ci stava aspettando per un tour della città. Non mi dilungherò più di tanto su Sydney, anche perché ho appena pubblicato un articolo dedicato a questa splendida città che ho avuto la fortuna di visitare nuovamente un anno dopo questa prima avventura australiana.

Tra le prime tappe degne di nota, l’Anzac Memorial (FOTO 46), una specie di monumento-museo dedicato ai caduti australiani di tutte le guerre e agli operatori di pace, situato all’interno di Hyde Park. Una breve visita all’interno del piccolo museo fa subito intuire come gli australiani tengano in maniera particolare al ricordo dei propri eroi di guerra e come ne siano particolarmente orgogliosi e rispettosi. Lasciato il monumento, attraversiamo Hyde Park (FOTO 47) e, dopo aver sfiorato la zona di Martin Place, ci addentriamo nel Royal Botanic Garden, una delle grandi aree verdi della city, diretti verso l’Opera House, il simbolo più noto della città.

Sin dai primi passi per le strade di Sydney, si ha subito la chiara percezione di una città moderna e i riflessi sulle vetrate dei grattacieli ne arricchiscono ulteriormente il carattere, la luce e le cromie, sotto un cielo azzurro ma attraversato da candide nuvole che questo ultimo giorno australiano ci ha riservato (FOTO 48).

La nostra visita prosegue e finalmente arriviamo all’Opera House. Dopo qualche scatto d’ordinanza, ci addentriamo tra i grattacieli cogliendo l’occasione per qualche scatto un po’ più street (FOTO 49).

Le ore passano e, dopo un pranzo veloce e qualche altro souvenir per chi ci stava attendendo impazientemente a casa, salutiamo Aiman e riprendiamo la metro per rientrare al nostro hotel e recuperare le valigie non prima di aver ammirato per l’ultima volta la splendida Sydney (FOTO 50). Dopo esserci rassettati, prendiamo un taxi, ci dirigiamo verso l’aeroporto e…ciao Australia. O, meglio, arrivederci.

Game over.
Ringraziamenti
Questo viaggio, seppure non di lunga durata, è stato per me una delle esperienze più forti mai vissute. C’è chi dice che per visitare l’Australia ci voglia un mese o almeno 20 giorni. Beh, non è affatto così. Ci vogliono i giusti ingredienti. Dal mio punto di vista basta un camper, un minimo di spirito di adattamento, entusiasmo, un iPad con la SIM australiana (fondamentale per il navigatore), e, last but not least, i giusti compagni di viaggio. Se nulla è andato storto, se gli imprevisti si sono tramutati in rivelazioni, se non c’è mai stato un attimo di sconforto o nervosismo, di tutto questo, devo ringraziare Franco, amico e compagno di viaggio spassoso, acuto e appassionato quanto me, se non di più, di natura e fotografia. Non resta che dire “alla prossima…” (già in programma).
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